“Io sono Colombo”, una riflessione teatrale sull'uomo e sulla storia

Redazione

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“Io sono Colombo”, una riflessione teatrale sull'uomo e sulla storia
All’Officina Teatrale Santa Lucia di Termini Imerese. Testo e regia di Piero Macaluso.

18 Gennaio 2016 - 00:00

Un uomo vuole vendere dei palloncini e il suo entusiasmo è vibrante e autentico come quello di un bambino. I bambini, si sa, son curiosi di tutto perché desiderosi di riempire il proprio bagaglio esperienziale: partono dunque alla scoperta del mondo. Colmo dell’entusiasmo di un bambino, dunque, esattamente come un bambino parte alla scoperta di un nuovo mondo, “per dimostrare che la terra è rotonda”, così è il Cristoforo Colombo, un po’ infantile un po’ schizofrenico un po’ meschino e ambiguo calcolatore, proposto dalla compagnia teAtroZeta di Termini Imerese.

“Io sono Colombo” è un pezzo di teatro volutamente simbolico, carico di suggestioni stranianti (il bambino-esploratore che vede-scopre il mondo per la prima volta), di echi dell’assurdo, del postmoderno, ma, a differenza di quest’ultimo, solidamente ancorato alla realtà della storia sotto il velo della rielaborazione artistica.

Di fronte a un monarca spagnolo paralitico e paranoico, interpretato da un intenso Michele Mulìa, e a una regina insoddisfatta e disillusa, incarnata da Ginevra Stracci, entrambi segni di un’Europa culturalmente e fisiologicamente asfittica, il nostro Colombo – nell’interpretazione di Piero Macaluso – non può che tramutarsi in un imbonitore dalla chiacchiera fluente, melliflua, in un continuo gioco di specchi e di rimandi (anche linguistici: caravelle-caramelle): un attore, appunto.

Il gioco però funziona e la monarchia, quasi a volersi liberare dell’incomodo artista-navigatore, concede all’avventuriero italiano le tanto sospirate caravelle – con la v, – con cui tentare l’assalto alle terre selvagge e inospitali del Nuovo Mondo.

Qui giunti, infine, la metamorfosi si compie: il bambino è cresciuto, ha perso l’innocenza. Il mondo è stato scoperto, adesso bisogna impadronirsene. Un confronto serrato fra Colombo e il sovrano dei nativi americani scopre le carte in tavola. L’Altro, inteso come altro-da-sé, è selvaggio non perché inferiore, ma perché diverso e perché obbedisce a un retroterra culturale inattingibile per chi gli si oppone. Le farraginose elucubrazioni del navigatore italiano si tramutano, così, nelle parole del sovrano, in disperate descrizioni delle atrocità commesse dagli invasori, i “civili” europei.

È su di una cupa atmosfera, ben diversa da quella (ambiguamente) gioiosa tratteggiata nell’esordio, che si chiude “Io sono Colombo”. Un’atmosfera sigillata da una preghiera, una richiesta a Dio nel disperato sforzo di estrarre un senso, un qualunque senso, da tutta la violenza e dal dolore della Storia.

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