L'Italia de “La Grande bellezza”

Marianna Lo Pizzo

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L'Italia de “La Grande bellezza”
Maestoso Servillo. Sorrentino nell'olimpo del cinema

18 Gennaio 2016 - 00:00

Un impatto caotico e lento, apparentemente faticoso in alcuni tratti, e con alcuni intromissioni che sembrano far inceppare la perfetta macchina della fotografia di Luca Bigazzi e della regia, magistrale e imponente di Paolo Sorrentino. Comincia e finisce, con le musiche di Lele Marchitelli ” La Grande bellezza”, (“The Great Beauty”), che sbarca in America scivolando sul tappeto rosso della serata più attesa di Hollywood e del cinema internazionale, con le tasche piene di premi che dalla Francia all' Inghilterra hanno incoronato il film made in Roma come miglior film straniero dell'ultimo anno.Un film pieno.

Un Toni Servillo maestoso nei panni di Jep Gambardella, 65 anni, traccia passi e intreccia pensieri incastrandoli tra le strade e le magnificenze di una Roma che lascia trafitti nella sua bellezza statica, eterna oltre lo schermo. Jep impassibile, quasi indifferente all'intorno, ha scelto di vivere in quella città da piu di quarant’anni, crogiolandosi tra gli eccessi di vizi e sfizi mondani. “Il potere di fare fallire le feste” diventa prioritario così negli anni che avanzano, alla volontà di scrivere. Già, Jep è uno scrittore, uno di quelli che riescono a ventisei anni a scrivere il romanzo della vita, delegando la successiva esistenza alla rendita di quell'opera prima. Uno di quelli che incontrano la grande bellezza durante l'adolescenza, il bocciolo dell'esistenza, ma che la abbandoneranno su uno scoglio puro e nudo come sull'Isola del Giglio. Ci ritornerà, Jep, molti anni dopo, e sull'orizzonte lontano del blu del mare, le spalle rivolte alla cinepresa, la carcassa della Concordia diventa il quadro perfetto della stortura di quegli anni trascorsi senza ciò che aveva perso. 

Sceglie così la grande Roma. Roma papalina, Roma mondana, Roma puttana. Le crepe millenarie del Colosseo che diventano solchi centenari nel volto di una suora venuta dal Mali che si nutre di sole radici e dorme per terra, venerata come una santa celeste in terra, perché ha vissuto priva di vacuità. Vita e morte si scontrano repentinamente. È proprio la morte che diventa l’emblema della vita. Riempire la morte di vita.

“Siamo tutti dei poveracci” dice Jep sbattendo in pieno volto la realtà ad una vita piena di alibi protettori della sofferenza. È uno dei momenti più brillanti del film, il momento in cui si rimane incollati alla cruda verità. Alla sincerità che è la cosa più complicata da sopportare, Pirandello docet. E cosi, nel silenzio della scena, nel silenzio dell'acqua della piscina non rimane nessun messaggio se non quello visibile. Guardare in faccia la vita, prendere schiaffi dalla realtá, ricordarsi da dove si viene per sperare di trovare e di trattenere la grande bellezza. Pura e nuda. Una missione impossibile nel caos del molto che ci sovrasta tra maschere che non solo a Carnevale, il giorno della grande attesa, indossiamo annaspando contro lo stupore del passato del Bel Paese trionfante. 

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