Storia di Vicenzo Fiore, il “desaparecidos madonita” e della sua Mamma coraggio

Redazione

Cronaca

Storia di Vicenzo Fiore, il “desaparecidos madonita” e della sua Mamma coraggio
Il giovane maurino scomparso in Argentina 39 anni fa e mai più ritrovato

18 Gennaio 2016 - 00:00

Ieri sera è andato in onda su Rai Uno l’ultima puntata della fiction “Tango per la libertà” che ha raccontato la pagina drammatica della dittatura in Argentina con più di 30mila desaparecidos. In pochi sanno che tra questi sventurati 4 furono siciliani ed uno madonita, esattamente di San Mauro Castelverde: Vincenzo Fiore scomparso nel 1977 a Quilmes un quartiere di Buenos Aires.

Riportiamo qui di seguito in prezioso contributo storico sulla vicenda firmato da Giovanni Nicolosi:

 “Prima di tutto mi dovete scusare degli errori perché ciò appena terzo grado e pure perché è da 30 anni che sto in Argentina. Ma la mia disperazione mi fa scrivere lo stesso per dirvi che sono la madre di uno dei tanti lavoratori italiani scomparsi in Argentina, mio figlio Vincenzo Fiore lavorava come operaio en la fabrica Peugeot, nato nel 1950 en San Mauro Castelverde, Palermo, Sicilia”

Questa lettera è stata scritta a Papa Giovanni Paolo II nel 1980 da Giuseppa Gallà, mamma di un desaparecidos di nazionalità italiana. Questa mamma coraggio, dopo la scomparsa del figlio, per avere sue notizie e chiedere aiuto scrisse, oltre che al Papa, anche al Consolato Italiano in Argentina, al Comandante delle Forze Aeree Argentine Orlando Agosti, al Presidente della Nazione Argentina Jorde Rafael Videla, al Presidente dlla Commissione Internazionale per i diritti umani, e al Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini. Durante il suo viaggio in Argentina del 1985, il Presidente della Repubblica italiana diede grande sostegno alle madri di Plaza de Mayo per le loro battaglie sui diritti umani e per la loro instancabile ricerca della verità. Ma nessuno degli interpellati, però, è riuscito a far tornare a casa Vincenzo Fiore e tutti gli altri desaparesidos.

Molti sono stati i maurini, e i siciliani in generale, ad inseguire il sogno americano. Chi decise di emigrare nel nord America, chi nel sud. Chi riuscì a realizzarsi e a garantire un futuro agiato ai propri figli, chi invece condusse una vita modesta. Chi riuscì a scalare i gradini del successo e chi, invece, inseguendo i propri sogni, fu inghiottito dal buco nero della dittatura militare argentina. Uno di questi fu il maurino Vincenzo Fiore, scomparso in una sera d’inizio autunno del 1977 fa a Quilmes, quartiere di Buenos Aires.

In un’indagine di quegli anni, condotta dal Corriere della Sera, è emerso che tra i 30.000 desaparesidos, 321 furono di origine italiana e ben 44 di nazionalità italiana. Tra questi ultimi c’era Vincenzo Fiore.

Il 24 marzo 1976 in Argentina vi fu il colpo di stato militare che portò al potere la famosa Giunta Militare con i generali Jorde Rafael Videla, Emilio Massera e Orlando Agosti. I dittatori fecero decadere il governo democratico di Maria Estela Martinez de Peron, che a sua volta, aveva assunto il comando nel 1974 alla morte del marito Domingo Peron, nel mezzo di una grave crisi istituzionale. Dopo il colpo militare, socialisti, comunisti, militanti di sinistra e tutti coloro che sposassero idee politiche diverse da quelle promosse dalla dittatura, furono considerati sovversivi e pericolosi.

Erano le ore 19:30 del 23 settembre 1977 quando la vita di Vincenzo Fiore e della sua famiglia cambiò per sempre. Un gruppo di persone composto da 12 unità delle forze armate e della polizia argentina in abiti civili, si presentò a casa della famiglia Fiore a Quilmes, con la scusante di cercare informazioni sulla collocazione di una bomba nella fabbrica Peugeot di Berazateghi, nei pressi di Buenos Aires, dove lavorava il giovane emigrato siciliano.

Quando Vincenzo rientrò, accadde ciò che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: fu immediatamente arrestato e, tra lo stupore di tutti, portato via. Quella fu l’ultima volta che la sua famiglia lo vide. La partenza di quelle macchine, il destino beffardo volle di origine italiana, quella sera segnò l’inizio di un lungo calvario di dolore e disperazione per tutta la famiglia Fiore, che ancora oggi non si è arginato.

Il giovane era nato a San Mauro nel 1950 da Giuseppa Gallà e Mauro Fiore. Nel 1951 la sua famiglia emigrò in Argentina, dove si trovava una folta comunità di paesani. La decisione fu molto sofferta, ma la paura di un’altra guerra, Mauro infatti in Italia ne aveva vissuti sulla sua pelle ben cinque anni, e la mancanza di lavoro, spinsero la famiglia Fiore a partire. Sperarono che in Argentina avrebbero potuto offrire un futuro migliore al loro figlio. Arrivati a Quilmes, Mauro e Giuseppa iniziarono a lavorare in una fabbrica tessile così, in breve tempo, riuscirono ad acquistare una casa. Vincenzo, dopo aver ultimato la scuola dell’obbligo, entrò come operaio nella fabbrica della Peugeot e nello stesso periodo iniziò a militare nel partito socialista dei lavoratori (PST).

Il giorno successivo alla scomparsa di Vincenzo, la sua famiglia si recò alla stazione di Polizia di Quilmes per chiedere informazioni, ma ricevettero un’unica e mendace risposta: il figlio non si trovava in quel luogo. Peccato che fosse di dominio pubblico la notizia che quel luogo era un centro clandestino di detenzione, chiamato “Pozo de Quilmes,” dove erano detenuti più di 300 desaparesidos, tra i quali Vincenzo, i fratelli Filippo e Domenica Fabazza, Santo Baria e un cittadino tedesco.

Tutti, tranne Vincenzo, dopo qualche mese furono rilasciati ed espulsi dal paese. Attraverso i genitori dei fratelli Fabazza, anche loro di origine italiana, la famiglia Fiore ebbe la conferma che anche il figlio era stato detenuto in quel centro, ma da quel giorno ad oggi, Giuseppa non ne ha mai più ricevuto sue notizia.

Alla tragedia umana e personale, si unirono le minacce del regime dittatoriale e la propaganda politica sui giornali. Dopo qualche mese, ripetute volte alcuni militari in borghese si recarono a casa della famiglia Fiore per intimare loro di non protestare in alcun modo.

Giuseppa non si arrese a quelle intimidazioni, denunciò l’accaduto ad un’organizzazione dei diritti umani ed entrò a far parte dell’Organizzazione Madres di Plaza de Mayo, fondata in quello stesso anno. L’organizzazione prese nome dalla piazza nei pressi della Casa Rosada, sede del Presidente dell’Argentina, dove ancor oggi i suoi componenti si riuniscono ogni giovedì per rivendicare i propri diritti e chiedere giustizia del genocidio dei 30000 desaparecidos.

Alle minacce dei militari, si aggiunsero fatti ignobili di coloro che vollero approfittare della tragedia umana della famiglia Fiore. Una mattina del 1978 si presentò presso la loro abitazione una guardia carceraria che sosteneva di conoscere Vincenzo, in quanto detenuto per un lungo periodo in una prigione di General Pico Pampa, una lontana provincia argentina distante 800 chilometri da Buenos Aires, dove egli prestava servizio. Secondo il sedicente militare, Vincenzo sarebbe stato liberato molto presto. Con la scusa di portare notizie al loro figlio, quell’uomo chiese soldi alla famiglia Fiore, e Giuseppa, aggrappandosi a quel filo di speranza nutrito ancora dall’amore per il figlio, consegnò all’uomo una buona somma di denaro, senza riceverne mai alcuna notizia.

Lo stato argentino, sia durante la dittatura della Giunta Militare che in seguito, offrì denaro ai familiari degli scomparsi tentando di comprare il loro silenzio.

Il governo democratico di Carlos Menen cercò di risanare la ferita, varando la legge n. 24411 del 1994, che prevedeva un rimborso economico a tutte le famiglie dei desaparesidos che avessero accettato la certificazone di morte dei propri cari in azioni sovversive contro le forze militari e paramilitari. Il valore di questo beneficio fu calcolato in 100 stipendi mensili di un impiegato categoria “A” dello stato argentino. La ricompensa per ogni desaparesidos si aggirava intorno ai 200.000,00 (duecentomila) dollari, somma esorbitante per ogni famiglia comune, e non solo argentina. Giuseppa Gallà, che nel frattempo rimase vedova e con un’altra figlia da crescere, rifiutò dignitosamente la proposta del Governo Menen. Come lei, numerose madri di Plaza de Mayo non accettarono il baratto e, ancora oggi, a distanza di quarant’anni, continuano a radunarsi ogni giovedì pomeriggio nella piazza de Mayo per affermare i propri diritti di giustizia e verità. Il loro slogan continua ad essere: “La vita di nessun essere umano può valere denaro e meno ancora quella di un rivoluzionario”. 

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