Cronaca

Mafia, le rivelazioni shock sulla diga di Blufi

7 giugno 2018, i magistrati di Caltanissetta interrogano Pietro Riggio, il nuovo collaboratore di giustizia originario di Resuttano, piccolo paese in provincia di Caltanissetta che si trova sostanzialmente a due passi dal comprensorio madonita. Pietro Riggio era una guardia penitenziaria, finito prima in carcere per i suoi contatti con Cosa Nostra e poi nel mirino della procura nissena che indaga sui depistaggi della strage di Via D’Amelio. Ma, fra una rivelazione e l’altra, Riggio comincia a parlare di un’altra storia, ed è un autentico fiume in piena.

Tutto parte da un pizzino che porta la firma di Bernardo Provenzano “le regole di cosa nostra sono sempre le stesse, non sono cambiate mai”, da questo documento parte il racconto di Riggio che riguarda la diga di Blufi. Un’opera faraonica che fin dall’inizio – erano gli anni ’60 – ha destato l’attenzione di Cosa Nostra, decisa a mettere le mani soprattutto sull’affare milionario degli inerti.

Per collocare temporalmente il racconto di Riggio occorre fare un salto in avanti, negli anni ‘90. I lavori vengono sospesi e ripresi più volte accumulando un enorme ritardo, ma il progetto rimane in piedi così come l’attenzione delle cosche della zona. A farsi avanti, secondo le rivelazioni di Rizzo, è la famiglia di Polizzi Generosa: “I Maranto rivendicano la titolarità della zona e quindi intendono, diciamo, espletare tutte quelle che sono le forniture, calcestruzzo, inerti, anche perché la diga necessitava di tre strati di inerti differenti, di cui sabbia, pietra, breccia – racconta – Mentre a un certo punto viene fuori un imprenditore di Bagheria, che doveva portare sia il materiale necessario per la diga dalle cave che lui aveva a Bagheria, sia effettuare i trasporti per quanto riguardava questi lavori. Naturalmente – continua Rizzo – sono sorti dei problemi abbastanza seri, abbastanza ardimentosi, perché già si parlava di guerra, di questo, di quell’altro”. Guerra tra famiglie rivali? Chiedono a questo punto i magistrati. “No no. La guerra tra i Virga e i Maranto è altra cosa, nata dopo per contendersi la leadership sulle Madonie. Perché i Virga si erano appoggiati a Provenzano, mentre i Maranto si erano appoggiati, diciamo, erano dell’altra ala e quindi erano invisi a Provenzano. Quindi poi li fecero fuori» l’espressine di Rizzo non fa riferimento ad un regolamento di conti con la “lupara”, ma ad una sostanziale retrocessione dei Maranto nella gerarchia del mandamento mafioso delle Madonie che, nonostante i tentativi di scalata dei Maranto di Polizzi, sarebbe rimasto saldamento in mano alla famiglia mafiosa di San Mauro Castelverde, grazie all’accordo stretto con i Corleonesi.

“I lavori andavano fatti dopo che l’opera era rimasta incompiuta dall’Astaldi – si legge ancora nei verbali che riportano le dichiarazioni di Riggio, pubblicate in parte dal giornale www.meridionews.it  – Siamo subito dopo il giugno del 2002. Io metto carta e penna e faccio una lettera per Bernardo Provenzano che consegno, dopo che la legge, ad Agostino Schillaci di Campofranco, che aveva il contatto epistolare con lo Zio. Nella lettera io chiedo se le regole di Cosa nostra sono sempre le stesse, se le regole di attribuzione dei lavori sono sempre uguali, se dove ricadono i lavori se ne deve occupare la famiglia, salvo il diverso avviso da parte sua e che c’avrebbe fatto sapere qualche cosa in merito”. Un mese dopo arriva la risposta “le regole di cosa nostra sono sempre le stesse, non sono cambiate mai”.

Il pizzino però si chiude con un ammonimento nei confronti di Riggio: “Tu non devi fare il mio nome”. “Testuale – ricorda il pentito di Resuttano – diceva proprio “tu non devi fare il mio nome”. Allora ho elaborato, ho pensato, ho detto non devo fare il suo nome, nel senso che questa risposta non mi arriva da parte sua, quindi non prendere avvalli dicendo che me l’ha detto lo Zio”.

In realtà Provenzano dimostra di conoscere il “doppio gioco” di Riggio che, insieme ad altri ex agenti conosciuti in carcere, mentre tentava di riabilitarsi agli occhi della giustizia, rivelando nomi ed aneddoti della mafia palermitana, continuava a mantenere un rapporto di stretta collaborazione esterna con Cosa Nostra.

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