“Qui la mafia non uccide” … quasi mai!

Michele Ferraro

Editoriale

“Qui la mafia non uccide” … quasi mai!
Il ricordo di Mico Geraci, assassinato da cosa nostra 16 anni fa

18 Gennaio 2016 - 00:00

“Questo è un posto dove la mafia non ha mai ammazzato nessuno, e mai lo farà”. Era il mese di luglio del 1998 e Mico Geraci si confida così con il noto giornalista venuto dal continente, Enrico De Aglio, per indagare sulla mafia delle Madonie, la “Svizzera di Cosa Nostra” l'aveva chiamata Giovanni Falcone, ribadendo un concetto espresso molti e molti anni prima da Cesare Mori.

“Usano altri metodi per le persone sgradite – continua il sindacalista mentre passeggia per le viuzze del centro storico di Caccamo con l’ospite venuto da Milano – le cacciano via, le fanno trasferire da qualche altra parte. Questa è una zona extraterritoriale, nella quale non vogliono che succeda niente. Qui non potranno mai uccidere nessuno”. 

Passeranno solo poche settimane e il sindacalista Domenico Geraci di Caccamo, Mico per tutti, verrà trucidato sotto casa. La mafia aveva cominciato a sparare.

A 16 anni di distanza l’ultima vittima della mafia madonita è ancora un signor nessuno per lo stato. Che sia stata cosa nostra a bagnare di sangue le strade di Caccamo, ponendo fine ai giorni di Mico Geraci, è fuor di dubbio. Lo sanno anche le pietre. Eppure la Commissione Nazionale Antimafia aveva lasciato negli archivi il fascicolo del sindacalista madonita. La dignità di un intero territorio sepolto dalla polvere.

Poi l’intervento dell’attore palermitano PIF nel corso della trasmissione televisiva “Il Testimone” ha riacceso i riflettori sul caso. Proprio nella primavera di quest’anno. Potenza della televisione! Così, a distanza di tanti anni, si è tornato ad indagare su autori e mandati del delitto. Fra i primi ad essere ascoltato Giuseppe Geraci, figlio del sindacalista.

Mico Geraci venne punito con la morte perché si era spinto troppo in là secondo il giudizio della silenziosa mafia madonita. Voleva fare i nomi! E non solo, voleva candidarsi sindaco!

La voce ormai circolava con insistenza sotto l’ombra del grande castello. Mico, nonostante l’aspetto pacioso ed il modo di fare da autentico gentiluomo, non era “uno qualunque”. Sindacalista conosciuto e stimato, passato dalla Cisl alla Uil, con centinaia di iscritti al seguito. Consigliere comunale e poi anche consigliere provinciale del Partito Popolare Italiano, capogruppo a Palazzo Comitini. Una persona capace e determinata. Uno con le palle! Uno capace di mandare a carte quarantotto l’ordito fra politica, appalti, economia, banche indisturbatamente intessuto da decenni nella “Svizzera di Cosa Nostra”.

Le voci sulla sua imminente candidatura causarono un terremoto che lasciò emergere dalle viscere della terra il fiume sotterraneo di cosa nostra che tutto pervade e ovunque s’insinua. Non potevano permetterlo, dovevano fermarlo!

Ma uno come Mico non lo fermi con la tattica. Così il capo mandamento, Nino Giuffrè, uomo di Bernardo Provenzano, emise la sentenza di morte: l '8 ottobre del 1998, a 44 anni di età, venne ucciso. 5 colpi di fucile a pompa, calibro 12. I killer, che erano in quattro su una Fiat Uno, lo avevano atteso sotto casa. Dal balcone un ragazzino provava a fermare le lupare lanciando contro gli assassini una pianta e urla di disperazione. Era suo figlio.

“Sono fermamente intenzionato a mettere mano al piano regolatore perché il marcio nasce da lì” diceva Mico pochi giorni prima di essere ammazzato, mentre preparava la sua campagna elettorale “e poi voglio coinvolgere i giovani, il volontariato, i cattolici impegnati, l'unico modo per spezzare questo circolo di potere che è completamente in mano loro”.

Non gli diedero il tempo, il sindacalista – secondo il giudizio dei mandanti – si era già spinto troppo oltre facendo il nome di Nino Giuffrè e quello della moglie, distinta signora da anni alla guida dei “servizi sociali” del municipio.

Dopo le denunce di Geraci e lo scioglimento del consiglio comunale nel 1993, anche Rosaria Stanfa, moglie di “manuzza”, subì l’onta dell’arresto per mafia, nel giugno del 1994. Salvo poi essere subito reintegrata al suo posto per controllare gli assegni da consegnare ai meno abbienti, per stilare le graduatorie delle case popolari, per assegnare le borse di studio agli studenti, per aggiungere ogni giorno altri nodi alla trama che Mico voleva sciogliere.

Vale la pena di ricordare il giudizio di Giancarlo Caselli sull’omicidio di Geraci, un commento lapidario: “una vicenda in cui si intrecciano e confondono gli interessi di tre poli: criminale, politico, economico”. Ora che sono passati 16 anni il miglior modo per ricordare e rispettare la sua memoria ed il suo sacrificio non è certo una corona di fiori ma la capacità di portare a termine un preciso dovere da parte delle istituzioni: riconoscere per Domenico Geraci lo status di vittima della mafia 

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