Termini Imerese, la Fiat e Marchionne: il miracolo che non ci fu

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Editoriale

Termini Imerese, la Fiat e Marchionne: il miracolo che non ci fu

27 Luglio 2018 - 16:42

di Stefania Giuffrè (pubblicato da www.buttanissima.it

Se sei cresciuto a Termini Imerese il marchio Fiat è come se lo avessi un po’ tatuato sulla pelle. Hai vissuto la parabola dello stabilimento che ha cambiato il volto e l’identità della cittadina a trenta chilometri da Palermo.
Qui, negli anni Settanta, le distese di carciofi hanno lasciato posto alla fabbrica, complice (così raccontano le cronache di famiglia) un sindaco poco illuminato che, anni prima, disse no al Club Med perché avrebbe portato scompiglio nella quiete borghese. Il risultato è stato che negli anni Sessanta i giovanotti di Termini andavano ad abbordare nel villaggio di Cefalù le straniere che lasciavano intravedere loro il sogno di queste donne libere e un po’ scollate.

In fabbrica sono arrivati i contadini che avevano ceduto i loro terreni per un posto di lavoro, nella speranza di smettere di spaccarsi la schiena nei campi. Sono finiti ai turni della catena di montaggio, questa macchina infernale che detta i tempi e i ritmi. A Termini la Fiat ha portato per anni i soldi, quelli degli stipendi degli operai che si trasferivano dai paesi circostanti e non solo. Gli stessi operai che, molto spesso, facevano un doppio lavoro. Non sono stati anni di ricchezza ma sicuramente l’economia girava, ben più di oggi: sette anni dopo la chiusura dello stabilimento, basta fare un giro per corso Umberto e Margherita, da sempre il centro commerciale, e contare le saracinesche abbassate.

La fabbrica in cui i dipendenti se ne sono tornati a casa per il troppo caldo nell’estate torrida del 2007 (rinunciando alla paga e fermando la produzione) o dove nel 2010 gli operai hanno incrociato le braccia perché gli erano stati negati i maxi schermi per vedere Italia-Paraguay ai mondiali.
Nel 2011 i cancelli della fabbrica chiusero. Il sogno industriale moriva, addio alle distese di Panda parcheggiate nei piazzali. L’artefice fu Sergio Marchionne che agli occhi dei più è considerato il nemico numero uno di oltre duemila lavoratori (compreso l’indotto). Chi però oggi, col corpo ancora caldo, lo accusa di cinismo dimentica una cosa fondamentale: Marchionne era un manager, il suo compito era quello di salvare la Fiat. Lo ha fatto, e questo conta. Lo ha fatto sacrificando l’impianto considerato con la minore produttività, quello che ancora aspetta l’interporto, quello in una terra in cui fare impresa è un miracolo. Il miracolo siciliano non gli è riuscito, ne ha fatto uno più grande.

Tratto da: www.buttanissima.it

 

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