Dalle periferie alle carceri, l’esperienza di Giusy: “la quarantena non è uguale per tutti”

Marianna Lo Pizzo

Cronaca - Generazione Z

Dalle periferie alle carceri, l’esperienza di Giusy: “la quarantena non è uguale per tutti”
I “ragazzi del prodigio”. Storie che raccontano viaggi, passioni, ambizioni e realizzazioni della generazione Z

19 Aprile 2020 - 12:27

La voce di Giusy è il suo sorriso. Così potremmo definire subito quest’intervista in cui emerge l’anima appassionata, seria, professionale di una ragazza che ha fatto del suo lavoro un impegno quotidiano. Quello di Giusy  è la voce di chi in questi giorni ha avuto un osservatorio diverso, quello di cui si parla sempre poco , ma poter  guardare il mondo “chiuso” con altri metri di valutazione è importante per comprendere in che modo si può e si deve ripartire. Le parole che sono entrate nel nostro quotidiano, distanziamento sociale, isolamento, reclusione sono ben conosciute da chi lavora nelle carceri.  La discussione sul sovraffollamento nelle carceri e sulle proteste dei detenuti, hanno permesso a molti di disquisire di un argomento che oltre ad essere poco conosciuto, è rimasto sospeso tra il giudizio e il divano comodo di casa. La quarantena non è uguale per tutti. Ce lo spiega bene la Dott.ssa Giusy Seminara, psicologa,  partita da Gangi e laureatasi a Padova dove ha deciso di rimanere a lavorare.

Giusy rimasta a lavorare al Nord in quarantena, raccontaci del tuo lavoro e di come sono stati questi giorni trascorsi “a distanza”.

Vivere la quarantena da liberi cittadini è il pensiero costante che accompagna i miei giorni. Vivo a Padova da quasi tre anni ed è in questa città così tanto solidale e aperta che sto trascorrendo questi mesi in cui tutto sembra essersi fermato, pronta a correre in Sicilia appena sarà possibile. La mia quarantena può sembrare bizzarra pensando che trascorro parte delle mie giornate porgendo la mano a persone che hanno vissuto anni di reclusione non tra le mura di casa ma in carcere. Per noi qui fuori si è fermato il tempo, è cambiato il nostro quotidiano dalle cose più semplici a quelle più grandi. Lì dentro invece il tempo è sempre fermo e non ci sono orologi per contare le ore. In questi giorni, da cittadina libera chiusa in casa, sto lavorando con loro e per loro. Sto portando avanti un percorso di reinserimento sociale con ragazzi tornati da poco cittadini liberi, accesi dalla voglia di ricominciare e di “rinascere migliori”. Uscire dal carcere è di per sé una grande sfida, perché sovrasta la paura di reinserirsi in una società che disprezza chi ha fallito. Pensate a quanto sia ancor più difficile uscirne adesso senza esseri liberi, isolati a casa, senza avere la possibilità di reimparare a stare al mondo e nel mondo. Nonostante siano stati messi in pausa ancora una volta, questi ragazzi sono grati di poter godere del sole, respirare l’aria pulita della città senza traffico, dormire su un letto comodo. Sempre con un pensiero per chi dentro c’è rimasto e ci rimarrà. Con le altre colleghe stiamo anche organizzando delle lezioni di psicologia rivolte alle persone detenute. Può sembrare strano pensare a delle lezioni del genere in carcere e soprattutto, “cosa vuoi che imparino i detenuti da questi insegnamenti”? Invece, proprio in carcere, fornire degli strumenti per promuovere una maggiore consapevolezza di quello che siamo.

Cosa significa vivere la quarantena nelle carceri, per chi non ha approfondito mai l’argomento, e perché secondo te, la difficoltà sembra farci diventare più egoisti?

La quarantena nelle carceri significa vivere nella costante paura che il virus possa entrare dentro e nella consapevolezza di non poter rispettare le misure precauzionali dati gli spazi ristretti. Sarebbe un buon momento per iniziare a strutturare progetti di vita per i detenuti, provvedendo alla loro scarcerazione tracciandone un percorso consapevole di reinserimento sociale. È importante accompagnare il detenuto nella ricerca di un lavoro, situazione che porta ad una perenna frustrazione ma che allo stesso tempo è la più grande speranza per ripartire. Crediamo spesso che chi è dentro non abbia voglia di lavorare, di impegnarsi, di ricomporre i tasselli andati perduti. Eppure, in questo mio tempo trascorso dietro le sbarre con loro, il lavoro è sempre stata la prima richiesta. Ho ascoltato le parole desolate di alcune delle persone recluse che avrebbero voluto rivolte caute e pacifiche, sofferenti per essere parte di quel tutto e nello stesso tempo vittime. Hanno avuto paura per quello che stava succedendo. Questo deve farci capire che da cittadini, da istituzioni, da società tutta abbiamo il dovere di porci in una condizione di ascolto attivo e di comprensione. Vedere le rivolte dentro le carceri in questi giorni ha probabilmente inasprito il nostro modo di considerare questi ambienti. Non sorprenderebbe ma badiamo anche a paragonare banalmente l’essere in quarantena all’essere reclusi, perché il carcere è altra cosa, restando consapevoli che la quarantena non è uguale per tutti.

Papa Francesco ha letto alcune lettere dei detenuti durante la Via Crucis. Chi è Don Marco che è stato il messaggero di queste lettere? Chi sono i preti che lavorano nelle carceri?

 “Non dimenticateci”. Queste le prime parole dei detenuti dei Due Palazzi di Padova al Papa, prima che Don Marco ne raccogliesse di più. Il Don ha sempre coltivato il seme della speranza. Lo conosciamo bene il suo lavoro in carcere. Conosciuto anche come “Don Spritz”, per la sua vicinanza ai ragazzi con i quali condivide anche momenti di convivialità, avrebbe iniziato a breve una serie di incontri tra detenuti e giovani. Mi piacciono le sue folli imprese, ultima delle quali la partecipazione dei detenuti alla Via Crucis. Don Marco ha dato voce agli ultimi degli ultimi, portando le loro storie dentro le nostre case, la loro sofferenza davanti alla Croce e la loro presenza in Vaticano. Un messaggio forte per credenti e non. I cappellani nelle carceri rivestono un ruolo davvero importante: mettersi sullo stesso piano dei peccatori e perdonare. Le persone detenute hanno bisogno del perdono, che comunque non li libera dal peso che porteranno sulle spalle per tutta la vita, ma li fa sentire accolti, visibili e capaci. Il lavoro di Don Marco Pozza, di Don Luigi Ciotti, di Don Gino Rigoldi e di tanti altri, ha portato a piccole grandi rivoluzioni nelle vite delle persone detenute.

Prima di Padova hai studiato a Palermo, conosci i quartieri popolari della città. Dopo il video di Pasquetta sul tetto anche molti italiani hanno visto per la prima volta lo Sperone.

Penso che ad essere dall’altra parte si è comodi e per questo non possiamo sempre prenderci il diritto di giudicare. È facile puntare il dito sugli altri quando “gli altri” non siamo noi. Ho vissuto in prima persona le periferie di Palermo, luoghi abbandonati spesso a sé stessi, dove le disuguaglianze sociali creano irreparabili crepe e muovono ad una forma di riscatto spesso inidonea. Le ho vissute non solo passando dai mercati e dalle piazze, ma nel contatto con gli abitanti e con i loro bisogni. È necessario fare un passo indietro e partire dal presupposto che il processo di interiorizzazione non è innato e che i modelli sociali cui siamo esposti sono fondamentali. Il rispetto delle leggi fa parte di questo processo e la società tutta ne è responsabile. La riqualificazione permette di affrontare situazioni di disagio sociale e le attenzioni da parte delle istituzioni verso gli abitanti fanno sentire gli stessi protetti e soprattutto “cittadini del mondo”. È indispensabile entrare nell’ottica di uno sviluppo di comunità che miri alla promozione delle risorse dei quartieri e alla percezione di sostegno sociale degli abitanti.

Slogan e pensiero positivo. Come sarà il nostro “dopo”?

 Non so come saremo dopo. Mi fa paura l’idea che si possa avere paura dell’altro, perché vedo come ci si guarda in fila al supermercato e tra gli scaffali. Spero che il rispetto delle regole e del distanziamento sociale non ci faccia dimenticare la bellezza di una stretta di mano al primo incontro, di un abbraccio, dei baci. È l’impegno sociale che dovrebbe muoverci sempre. Siamo noi i responsabili di questa società, sia come singoli sia come collettività. Questo mi auguro, che saremo prima di tutto comunità, definizione alla quale sono particolarmente legata, oltre ogni forma di pregiudizio. Credo che in questo senso tutto potrebbe davvero andar bene.

 

 

 

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