Quando i borghi d'Italia non esistono più

Marianna Lo Pizzo

Cronaca

Quando i borghi d'Italia non esistono più
Il terremoto nel Centro Italia ha spazzato per sempre quei luoghi, custodi delle radici e del futuro

18 Gennaio 2016 - 00:00

L’ultima curva prima di uscire dal paese, dal borgo che è il custode dell’estate, della radice, della terra solcata a mano dai nonni. Un pensiero alla torre, all’orologio appeso al municipio, ai rintocchi che seguono il silenzio. Quando sentiamo quella parola, borgo, ormai entrata nel nostro lessico giornaliero, dimenticandoci di quando il paese era paese, la campagna era nient’altro che la terra intorno e la distanza dalla città la croce dell’inverno e la delizia dell’estate, ci riempiamo di orgoglio e, da due giorni, di silenzio.

La terra scelta dai nonni dei nonni, e da quelli prima, per soddisfare appetito e sudore si è risvegliata in un tradimento brutale, colpendo tutti. La memoria, la storia e troppi respiri. L’annientamento è totale.

L’ultima curva prima di andare via dall’estate che volge al termine, lasciando dietro le pietre e i sorrisi di ogni abitante che hai visto trasformare nel tempo e rimanere fedele a quella terra. E senti la stretta fisica tra lo stomaco e il cuore, di essere allo stesso modo legata ad ognuno di quelli che sopravvissuto, smarrito, non si domanda ancora del futuro. Perché quando nasci in un paese, quando cresci, quando ci torni, quando resisti, comunque esisti.

Come può la fronda svettare al cielo senza la terra alla quale attaccare saldamente le radici?

Esistere tra quelle pietre, sopra quella terra. Riconoscere il crinale della montagna. Portarlo dentro ed in giro per il mondo, come unico e irripetibile.

Ma guardando le immagini prima della devastazione del terremoto, rivedi il tuo borgo in quei borghi. Sembra che l’irripetibile si identifichi e si copi nell’immaginario del dolore.

Rivedi ogni abitante di Amatrice, uno dei borghi più belli d’Italia, proprio come i nostri. Li riconosci tutti, i morti e i vivi. I bambini che partecipano alle sagre del paese e quelli che avrebbero dovuto iniziare la scuola con il grembiule ancora che odora di bucato, appeso al vento pulito della montagna.

Pescara del Tronto, incasellata tra le alture, case su case, Accumoli che quando si imbianca sembra uguale, allo stesso modo, al tuo borgo incantato. E se cerchi delle immagini che ti dicano come era tutto prima, uguale e irripetibile ai nostri borghi, fai fatica ad andare oltre le macerie, ma conosci l’immagine prima di visualizzarla.  

L’edicola, la torre,l’orologio, la piazza, le panchine e gli anziani che hanno resistito alle loro case ereditate e lontane, accasciati adesso su qualche letto di ospedale senza avere memoria di quello che sarà, perché niente esiste se non quello che è andato perso. E allora imprimi ancora più forte il ricordo delle passeggiate d’estate, delle porte chiuse, delle persone che hai salutato prima di partire per non disperdere quel sapore lento del paese che dietro la curva scompare chiedendo che rimanga saldo nel tuo cuore come alla terra che lo ha generato.

I borghi distrutti, andati persi nella furia della notte, si sono addormentati così. Chi crede che la storia possa riappropriarsi del futuro allo stesso identico modo? L’orologio rimasto fermo all’ora del tremore è il tempo che non ha ceduto. Il tempo che vuole riprendere la corsa verso il domani. L’inverno sarà veloce ad arrivare, allo stesso modo dei nostri, rigidi e isolati. Il silenzio sarà ancora più forte. Ma l’attesa sarà soltanto un frammento che dovrà essere colmato, presto, presto, presto, del rintocco dell’orologio della torre, per onorare i morti, troppi, e concedere ai vivi di ritornare, come noi ogni estate, come loro ogni giorno, nel loro angolo di mondo ferito ma saldo di nuovo a quella terra che li ha generati. 

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