La storia di Antonella, l’infermiera madonita che ha sconfitto il coronavirus

Mirella Mascellino

Cronaca - Da Alimena a Bellagio

La storia di Antonella, l’infermiera madonita che ha sconfitto il coronavirus
Antonella Polizzi, di Alimena, è un’infermiera di 29 anni. Da tre anni vive e lavora in una Rsa a Bellagio, in provincia di Como

27 Maggio 2020 - 11:30

Antonella Polizzi, di Alimena, è un’infermiera di 29 anni. Da tre anni vive e lavora in una Rsa a Bellagio, in provincia di Como. In questi mesi di duro lavoro, anche lei, come tantissimi italiani, al lavoro, ha contratto il Covid-19. Adesso è guarita e tornata al lavoro, ha voluto dare la sua testimonianza e noi la pubblichiamo così come ce l’ha inviata.

“Fin da bambina ho sempre avuto le idee chiare su quello che volevo fare nella mia vita. Sono sempre stata dell’idea che ogni tipo di lavoro è un aiuto al singolo e alla società. Ma io cercavo il contatto umano, il poter aiutare sfiorando le mani di chi riceve il mio aiuto… così ho scelto di essere infermiera e amo questo lavoro ogni giorno di più anche se sono lontana dalla mia terra. Era il 24 febbraio e ricordo come dalla camera di un paziente sento la notizia dell’arrivo del Covid-19 in Italia. Pensavo che non sarebbe mai arrivato nella nostra struttura. Mi sbagliavo. Il tempo scorreva, le giornate a lavoro diventavano sempre più pesanti, ma allo stesso tempo aumentava la voglia di vivere, di combattere perché la speranza che tutto questo presto sarebbe finito mi dava la spinta per alzarmi al mattino e scendere in campo. Le notizie si susseguivano e presto ci fu il primo paziente positivo. Da quel momento qualcosa più grande di noi ci travolse, trasformavamo i reparti e con loro le nostre vite.

Nella nostra routine comparvero cuffie, mascherine strette e soffocanti, strati sovrapposti di tessuto non traspirante, il tutto indossato per ore ed ore. La situazione era sopportabile in equipe, anzi ci proteggevamo a vicenda controllando ad inizio turno che ognuno di noi fosse ben protetto. E poi arrivò. Ero io in turno, quel pomeriggio, quando il primo decesso colpì la nostra struttura. Dopo aver messo in pratica il nuovo protocollo, preparai il paziente. Ricordo di averlo spogliato completamente, poi disinfettato e messo dentro ad un sacco con cerniera. Anche se con qualche lacrima non potevo tirarmi indietro, dovevo farmi forza da sola. La morte dei pazienti Covid-19 è la cosa che più ti colpisce a livello umano. Si può morire in una stanza di ospedale, ma raramente si muore da soli.

Un paziente Covid-19 è un paziente solo che non può avere la vicinanza dei propri cari, ha bisogno non solo di assistenza sanitaria ma anche di un sostegno emotivo. Purtroppo manca un sorriso che non può vedere, o una carezza che non può ricevere, spesso fanno una gran fatica a riconoscerci, ma noi siamo l’unico contatto umano che possono avere. Poi la sera del 30 aprile, erano le 21,30 circa, mi contattò la caposala per comunicarmi la positività. Per un attimo rimasi in silenzio, senza parole. Allora quel raffreddore non era solo allergia, quella stanchezza non era dovuta ai 21 giorni di lavoro senza riposo, ma alla fine era lui, il subdolo che era riuscito ad entrare dentro me, nonostante le tute, la maschera stretta, gli occhiali, i tripli guanti. Il Covid-19 aveva vinto.

Ricordo come cercai di tranquillizzare i miei genitori ed i nonni con lunghe telefonate e videochiamate. È così iniziò la mia quarantena, con giorni lunghi e interminabili, senza poter vedere nessuno, lontana dalla mia famiglia, dai miei colleghi, a cui pensavo spesso, perché non potevo dare il mio contributo. Sono state settimane difficili ma soprattutto di crescita, di riflessione, ho provato emozioni che difficilmente dimenticherò. Mi sono sentita sconfitta come se fossi caduta in battaglia. Ma ho vinto io. Sono tornata a combattere e a gestire insieme ai miei colleghi situazioni tuttora complicate. Il mio rientro è stato accolto come una piccola vittoria ma non è stato tutto come speravo. Abbiamo salvato tanta gente ma non tutti , nonostante le mille attenzioni del caso e la nostra professionalità.

In questi giorni sento spesso la parola “Eroi” associata alla nostra professione. Sono grata per le belle parole che ci state dedicando. È facile apprezzare il nostro lavoro ora. Spero che questa ammirazione verso la nostra professione resti tale anche quando tutto tornerà alla normalità. Oggi il mio desiderio più grande è quello di riabbracciare la mia famiglia e le persone a cui voglio bene, e non vedo l’ora di perdermi in questi abbracci”.

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